Naslovna Confederazione Milica Radivojevic: Seconda generazione di stranieri e i problemi d’integrazione

Milica Radivojevic: Seconda generazione di stranieri e i problemi d’integrazione

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Il problema dell’integrazione degli stranieri in Ticino è sempre presente, ormai da anni. Sono stati attuati vari programmi sia a livello cantonale che a livello statale, ma la problematica persiste e sembra non diminuire da anno in anno. Le nuove generazione crescono e vengono istruite sul territorio ticinese, ma le famiglie dalle quali provengono hanno ancora qualche difficoltà a vedere la Svizzera come la propria patria, preferendo a loro volta il paese d’origine. Con una realtà famigliare del genere, quanto è fattibile per le seconde e terze generazioni integrarsi nella società svizzera, personificando la cultura e le tradizioni elvetiche?
Una domanda semplice che non trova, sicuramente, una risposta altrettanto palese.

Viviamo in una società stereotipata, nella quale lo straniero è visto come una persona non grata e, in certe circostanze, colui che è colpevole di tutti i malesseri sociali. Sicuramente una realtà del genere non aiuta l’integrazione degli individui, ma gli lascia navigare nell’alta marea che quotidianamente gli fa perdere il controllo della situazione e gli fa cadere nel vortice del rifiuto. Un fenomeno che è sicuramente difficile da gestire, soprattutto quando gli stranieri domiciliati sono tanti, troppi per i più scettici.

Tornando un passo indietro, integrarsi che cosa significa precisamente?
Se dovessimo guardare a questo termine in un senso generale, ovvero come persone che parlano perfettamente la lingua del posto e rispettano gli usi e i costumi della terra nella quale vivono, allora possiamo dire che i figli degli stranieri sono perfettamente integrati. Se, però, osserviamo il fenomeno da un punto di vista più ravvicinato, dobbiamo ammettere che le seconde generazione restano comunque all’interno del proprio ghetto, anche se certi di loro in modo parziale. La responsabilità non è assunta da nessuno, né dal Governo svizzero e tantomeno non dalle famiglie straniere. È sicuramente una situazione poco piacevole, quando già alle elementari ti classificano a causa del cognome che porti: non gli insegnanti, ma gli allievi stessi che sentono quotidianamente parlare dello “slavo” – nome che spesso viene seguito da un aggettivo dispregiativo. Eventi del genere si manifestano nella vita quotidiana di ogni straniero, anche di quelli che cercano a tutti i costi di rinnegare l’altra parte della loro identità.

Il concetto d’identità è un altro che dovrebbe fungere come un arricchimento culturale, ma spesso è “una palla al piede” soprattutto per chi d’identità ne ha due. È difficile decidere da che parte stare e personalmente credo che non si ha nemmeno il bisogno di prendere una posizione radicale. Vivere in un paese, ma rispettare la cultura d’origine è la miscela ideale per arricchirsi personalmente e arricchire i due paesi in questione, anche perché non si può rispettare la cultura svizzera se non si conosce la cultura d’origine. Un ruolo fondamentale è all’interno della famiglia, un’educazione mirata con lo scopo di allontanare le persone dall’integrazione – fenomeno che spesso accade all’interno del nucleo famigliare – potrebbe nuocere gravemente all’accettazione dell’altro. D’altro canto, chi sente il bisogno di doversi integrare – che da un lato è anche un dovere essendo in Svizzera – deve rendersi conto che l’integrazione va ben oltre al parlare bene una delle lingue nazionali e sicuramente non è un processo di breve durata. Finché gli stranieri domiciliati sul territorio ticinese vedono come processo d’integrazione solamente le due feste multietniche organizzate durante l’anno, non ci sarà una vera integrazione.